
Su L'acqua della nostra sete, Milo De Angelis, Poesia, Crocetti
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Alessandro Anil ha un respiro epico che ritengo unico nella poesia italiana del nostro tempo, un respiro ampio, maestoso, che accoglie in sé un’intera tradizione e un intero universo. La natura, i popoli, le epoche e le generazioni confluiscono in questi versi e li colmano di tempo. Li portano all’indietro nella potenza degli inni vedici e poi li proiettano in avanti verso il futuro misterioso che spinge il poeta a gettare i dadi della sua profezia. Leggendoli ci sentiamo trasportati tra i millenni e tra i continenti. È un volo che ci mostra dall’alto la scena, uno sguardo totale. Ma al tempo stesso – ecco l’incantesimo di questa poesia – è un volo che sa scendere all’improvviso sul dettaglio, sa puntare sulla creatura singola e sulla sua irripetibile esperienza, sul “tu” femminile di un colloquio amoroso, seconda persona singolare, concretissima e presente, di una donna a cui queste parole sono rivolte. Ne scaturisce un insieme contrastato di toni e di sguardi. Da una parte c’è l’interrogazione del sapiente che percorre le rive dell’assoluto, con le sue immense domande sul senso della vita, dell’esilio, del ritorno. Dall’altra c’è un sermo cotidianus ricco di intimità, l’incontro con un’amica fedele dove il poeta racconta episodi e scoperte della sua vita e traduce le forze smisurate del cosmo nell’alfabeto dell’infinitamente piccolo. E sottolineo in corsivo questo verbo perché si tratta di un punto cruciale nell’opera di Anil, che ha sempre visto nel poeta il traduttore da una lingua arcana precedente a una lingua che sarà lingua futura attraverso di noi, lingua di una nuova comunità. Il traduttore è dunque il traghettatore da una sponda all’altra dell’essere e questa traduzione ha una posta in gioco altissima. Dalla sua riuscita – scrive Alessandro Anil – dipende l’aspirazione somma dell’essere umano: unire in un unico cammino il viaggio terrestre al viaggio assoluto, il microcosmo dell’azione quotidiana all’universo delle smisurate lontananze. Non a caso la metafora che percorre tutto il poemetto è quella dell’acqua. Acqua dei fiumi ma anche acqua della nostra sete mattutina, acqua che beviamo dal bicchiere. Acqua dell’oceano che si versa nell’acqua di un lavandino e si dispone a lavare i nostri corpi o a bollire il nostro cibo quotidiano. Acqua che vediamo fluire dal torrente ai nostri occhi e al nostro pianto. “Guardare il torrente scorrere fino a scorrere con il torrente”, scrive Anil: sentire la remota alleanza tra una riva e l’altra del fiume, un sussurro di voci sconosciute e amiche che ci attendono da qualche parte del mondo o di noi stessi.
siamo sul lato di un fiume e si notano appena dalle piccole luci
le forme vaghe dell’altro versante. In mezzo, tutta l’incerta acqua
che scende a grandi blocchi, il suo salmodiare, melodico e costante.
È qui, su questa riva, dove si perdono le forze e ci si abbandona
all’eterna stasi sulla soglia, esattamente qui, non altrove, che sopraggiunge
oltre i secoli il soccorso bellissimo e imprevisto di voci amiche,
questi saranno i maestri, gli insegnanti, i compagni del nostro attraversare.
Su L'acqua della nostra sete, Giancarlo Pontiggia, La giovane poesia italiana, Gradiva

ALESSANDRO ANIL
Note sulla melodia dell’acqua, da cui sono tratti i versi che seguono, è il terzo e ultimo movimento di un poemetto in fieri che si intitolerà L’acqua della nostra sete. La voce che parla, e può dire «io», è quella di un giovane, uno come tanti, «il più mortale fra gli esseri» (espressione formulare che scandisce tutte le prime sei lasse del testo), nel momento in cui la notte cede alle prime luci dell’alba, «quando l’eterna contesa fra luce e ombra / rinnova il ritorno quotidiano della morte chiamata sonno» (I, 43-5). Accanto a lui una ragazza, di cui sentiamo il respiro e il calore della carne. Fuori, le cose di sempre che fanno ritorno, riemergono dalla calda e indistinta densità della notte: e sono suoni, rumori, silenzi, fruscii, pensieri che ingombrano «l’aria della stanza». Perché il risveglio non è altro che «contraddizione, affermazioni del mondo che iniziano a bussare / alle porte del sonno» (IV, 15-16). E le parole eterne della vita, le arcane forze del tempo, le vaste immaginazioni che bruciano nel nostro animo, e ci confondono.
Si capisce allora come tutto possa dilatarsi in questa soglia sospesa di essere, che è come un vasto fiume al quale si abbevera la nostra sete originaria di vita. E dentro la voce di questo giovane passano anche i vasti emblemi della storia del mondo. Frammenti che vorrebbero catturare l’eterno, immagini di assoluto, scaglie di una vita irrisolta: il giardino di Hampstead dove Keats compose la sua Ode a un usignolo, le rive del Gange che il ragazzo sorvola in forma di falco, una tela di Piero della Francesca, i sandali di Empedocle, i pensieri di Baudelaire sulla bellezza. E «tutto è già memoria che discende, commistione di morti con i vivi» (VII, 22). Né al lettore potrà sfuggire l’ampiezza delle immagini che si srotolano lungo queste sequenze, come nei versi che vanno a concludere la terza lassa del poemetto: «Secoli oscuri e brutali sono scesi lungo i nastri bianchi e tiepidi / che indietreggiano dalla tua schiena, tra l’età del ferro e quella del niente / in cui ci ritroviamo fra i viventi». O ancora, poco dopo, all’inizio della quarta lassa: «Il polline si raduna negli angoli del terrazzo, ma noi non sappiamo dei notturni / e del vento che trasporta e feconda, della clessidra sotto cui scorrono le mani».
Anil si affida, per restituire il sentimento di questa vastità – che è spaziale e temporale insieme –, a un verso lungo, ampio e meditato, che può ricordare il corso di un fiume orientale, con il suo fluire lento e pigro, le sue acque che riflettono la chiarità dei cieli o il verde cupo delle boscaglie, le lunghe spire sinuose in cui si avvolge: è un verso che va oltre la ritmica e la metrica tradizionale, e che pure non è mai prosastico, e sembra anzi una sorta di esametro rinforzato. Anche se non mancano momenti sentenziosi, più verticali, che spezzano all’improvviso il movimento narrativo, come se volessero svelarne il senso: «Il sonno è oblio, ritorno / verso l’origine» (II, 1-2); «Il tempo è differenza, il sonno assenza di tempo» (II, 7).
Colpisce che si debba a un poeta che ha vissuto fino ai sedici anni in India l’uso di una lingua non asintattica, e che anzi si affida a una trama uniforme e compatta di strutture subordinative, accompagnate dall’uso continuato di metafore («la cupola del sonno», già al v. 2) o di immagini di intensa forza figurativa. Così come colpisce lo stato di apparente innocenza con cui l’autore può parlare, partendo dall’usignolo di Keats, dell’«eterno usignolo di Shakespeare, Milton / di Ovidio, quello che secoli addietro accompagnò Ruth nei campi d’Israele, / la forma di tutti gli usignoli» (II, 11-13). È come se Anil tornasse di nuovo alle origini di un pensiero e di una civiltà, facendo sua quella dimensione immaginativa cui già Leopardi volle tendere nei suoi Canti: ma con un respiro lungo e poematico che da tempo non si sentiva nella nostra poesia. E certo non sarà un caso che dietro di lui sia «una lunga generazione di uomini che fra Occidente e Oriente / hanno tirato instancabilmente le fila di questa favola eterna» (III, 18-19).
Su l'acqua della nostra sete, Sonia Caporossi su Versante ripido
Su Versante d'esilio, Cinzia Demi su Altriitaliani

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Ho lasciato estranei nelle voci, Stefano Bottero su Lampioni aerei

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Mario Famularo su L'acqua della nostra sete, Atelier

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